Giovani imprenditori e vecchi mestieri

Rincontrare per le strade del centro un vecchio amico del liceo e scoprire che, anziché fare l’insegnante di pilates o lo sviluppatore di app, si è messo a restaurare liuti o a produrre spirulina è una di quelle cose che sul momento ci lascia un po’ interdetti: se ci riflettiamo su, il sapore che storie di questo tipo lasciano in bocca non può che essere di dolce (o amara?) ammirazione. Recuperare una materia prima perduta o un mestiere ormai inusuale è una cosa per pochi, ma tutt’altro che da poco, soprattutto se sei un giovane imprenditore under 35, magari meridionale.

Il “Nido di seta”, ad esempio, ci è riuscito. La parola “recupero” questa cooperativa catanzarese con base a San Floro l’ha capita, sperimentata e realizzata fino all’ultimo filamento. Domenico Vivino, sua moglie Miriam Pugliese e Giovanna Bagnato, il primo di 33 anni e le seconde di 31, con grande spirito propositivo, dal 2014 gestiscono e destinano 5 ettari di terra alla bachicoltura – e non solo. La loro attività costituisce un’unione virtuosa di artigianato, agricoltura e turismo:

  1. l’attività principale è ovviamente la produzione di seta e stoffe pregiate, che si ricavano dalla raccolta dei filati prodotti dai bachi;
  2. in secondo luogo, le more di gelso che maturano copiosamente in giugno, ignorate dai bachi che preferiscono le foglie, sono raccolte per realizzare prelibate confetture e liquori e si accompagnano alla realizzazione di gioielli fatti di un materiale misto fibra di seta e ceramica di Squillace, che vengono venduti anche in e-commerce;
  3. e poi, da qualche anno a questa parte, sono ormai migliaia i turisti e le scolaresche che visitano la nuova via della seta, riempiendo i bar e i B&B della zona.

Insomma, i tre giovani catanzaresi sono riusciti a riportare in auge un’attività lavorativa per cui la loro città, sin dai tempi del Medioevo, era conosciuta in tutto il mondo. Lo hanno fatto studiando strumenti e tecniche tradizionali, dopo aver fatto un salto in India e una chiacchierata con gli anziani del paese, i veri custodi dei segreti più pratici.

Spostandoci in Puglia, un altro esempio virtuoso di attività di recupero è ApuliaKundi, una startup fresca e giovanile, ormai divenuta un’impresa a tutti gli effetti, che produce la spirulina, un’alga di colore verde-blu dalle straordinarie proprietà nutritive e ricostituenti. È addirittura considerata un superfood, perché costituisce l’alimento vegetale con il più alto contenuto di proteine vegetali, contiene una vasta gamma di sali minerali, vitamine e acidi grassi essenziali, che la rendono un ottimo integratore naturale che aiuta ad eliminare il colesterolo cattivo, poiché antiossidante, a basso indice glicemico e fonte naturale di ferro. Basti pensare a com’è nata l’idea di sperimentare la produzione di spirulina in Puglia: i giovani ragazzi ideatori della startup, nel 2010, intrapresero un viaggio in un villaggio del Malawi, dove la microalga in questione veniva coltivata e integrata ai pasti dei bambini denutriti e dei malati di AIDS per rafforzare il sistema immunitario. Con il cuore e la mente ispirati da quanto avevano visto in Africa, i ragazzi pugliesi, al ritorno in Italia, hanno deciso di trapiantare e coltivare la spirulina nella loro terra natia, sviluppando col tempo anche obiettivi ulteriori in chiave green, il raggiungimento dei quali è valso loro la vittoria di svariati bandi e premi di prestigio.
Le sfide principali erano – e sono – incardinate sul miglioramento della qualità del cibo, sulla sensibilizzazione della popolazione ad una dieta equilibrata a livello nutrizionale e sul raggiungimento della sostenibilità ambientale. Infatti, coltivare la spirulina non causa inquinamento e contribuisce all’abbattimento dei gas serra: ad esempio, per ogni Kg di Spirulina secca prodotta vengono catturati 2Kg di Co2 dall’ambiente.

Migrando leggermente più a Nord-Ovest, e precisamente nella provincia di Cagliari, troviamo un altro eccellente modello di riutilizzo di materiali in chiave moderna: si tratta delle creazioni in ferro battuto di Francesca Frau, una giovane artigiana che, seguendo le orme del padre, ha scelto di mantenere viva la tradizione di famiglia della lavorazione del ferro battuto. Il filo conduttore delle sue creazioni di complementi d’arredo di interni ed esterni è costituito dall’equilibrio fra senso estetico e funzionalità degli oggetti, e da una cura minuziosa dei particolari che rende ogni pezzo unico nel suo genere. Prima di realizzare il prodotto finale attraverso le antiche tecniche della forgiatura, fiammatura e cesellatura del metallo, Francesca condivide col cliente una bozza che possa rappresentare al meglio ciò che quest’ultimo desidera. Il risultato è un lampadario o una balaustra che si addice perfettamente all’ambiente della casa da arredare e che conferisce nuova vita a tutto l’artigianato sardo.

Ultimo esempio (ma ce ne sarebbero tanti altri) di giovani che si dedicano al recupero di materie prime e mestieri di vecchia data è l’Unione Campanari Bolognesi, un’associazione del capoluogo emiliano nata molti anni fa ma recentemente partecipata da molti giovani, che coltiva la passione per uno strumento musicale un po’ inusuale, ma di origini antichissime: la campana. L’arte campanaria richiede dedizione e lunga preparazione ed il tipico metodo “alla Bolognese” di suonare le campane è unico nel suo genere perché risalta al meglio le caratteristiche sonore del bronzo. Lo scopo che l’Unione Campanari Bolognesi si propone di raggiungere non è solo quello di perfezionare, tramite le nuove leve, un’arte “a rischio di estinzione”, ma anche quello divulgare una tradizione antica che, al contempo, costituisce un esercizio ginnico accattivante, perché abbisogna di senso del ritmo, memoria ferrea, forza fisica e capacità di fare squadra.

Insomma… Chissà che il prossimo amico di vecchia data che incontreremo per strada non si sia messo a fare l’ombrellaio con materiali riciclati o il produttore di materassi home-made!

Già pubblicato su Quotidiano del Sud – L’Altravoce dei Ventenni 16/03/2020