IL POTERE DI ARRENDERSI, OSSIA L’ARTE DI GODERE DELLA PROPRIA DEBOLEZZA

Quante volte avente sentito parole come “l’importante è non arrendersi mai” oppure “ciò che conta è andare avanti sempre e comunque, non mollare mai”? Io tante. E più ascolto parole simili e più persistente pungola nella mia mente l’interrogativo: ma tutti questi che non si fermano mai e vanno avanti con gli occhi sbarrati come cavalli da corsa senza fantino, dov’è che vanno esattamente?

A me viene sempre in mente una sola immagine: un uomo che corre su un tapis roulant, il quale, di fronte alla fisiologica percezione della fatica che gli scorre tra le gambe fino a quella del corpo che vacilla supplicando una sosta, aumenta imprudentemente la velocità. Riflesso nello specchio, il volto contrito e sofferente e gli occhi sbarrati brucianti per il sudore gli ricordano che il suo imperativo è uno solo, quello di non mollare mai. Per cui si auto impone di non fermarsi, non arrendersi, anzi, di continuare con maggiore forza perché il rischio di fermare la macchina e scendere, non può essere corso per nessuna ragione. Se scendesse, pensa addirittura il nostro amico, finirebbe per indietreggiare.

Questa visione della vita, insieme alla definizione di coraggio e determinazione che l’accompagnano, è figlia del romanticismo degli ultimi secoli. Alfieri senza troppi timori e con voce greve direbbe “Volli, e volli sempre, fortissimamente volli“. Per farla breve, questa concezione di coraggio corrisponde all’idea di affrontare la vita un po’ come il primo uomo che salta dalla trincea. E, per la cronaca, è anche il primo a morire. Volere è potere. Se vuoi magari anche la morte stessa non è un limite, ciò che conta è buttarsi e non mollare.

Mi sono chiesto più volte cosa fosse realmente il coraggio, se andare avanti sempre e comunque fosse realmente l’unico modo, o anche solo un modo, per raggiungere il comune obiettivo che ci caratterizza tutti, ossia essere felici. Alla fine mi sono domandato se si trattasse di resilienza – parole fin troppo abusata di questi tempi – oppure se fosse esattamente quello che vedevo: una persona correre e affannarsi per rimanere sempre inchiodata allo stesso punto della propria vita, finendo poi per frantumarsi in una caduta spettacolare quanto madornale.

Nel tentativo di rispondere a questi interrogativi ho lentamente e faticosamente compreso che non c’è onore né, tanto più, speranza di essere felici nella comune e dominante credenza, figlia di una società che ci vuole e giudica tutti come dei performers, che la vera forza, il successo personale e il coraggio risiedano nella capacità di sentirsi invulnerabili, illimitati e infinitamente resistenti.

Ho concluso che il raggiungimento della propria felicità richiede una resa incondizionata: l’arte di arrendersi ai propri limiti e alla propria fragilità, per imparare a goderne. Sì, l’ho detto finalmente. Riconoscere che non tutti i limiti possono essere superati, che non si può contare solo su sé stessi ma che anzi nella richiesta di un aiuto vi è una profonda dimostrazione di coraggio, non comporta solo una presa di coscienza della propria umanità, quanto soprattutto del fatto che non esiste altro modo sano di vivere; e, se mi permette, crescere ed evolvere.

I Greci avevano tentato di spiegarcelo, tramite l’espressione “katà metron“, che sta a significare “secondo misura”. In pratica, secondo il pensiero filosofico greco vivere “secondo misura” è l’unica strada percorribile nel tentativo di vivere una vita felice. Ma ciò richiede inevitabilmente un’opera di consapevolezza di sé, di quella misura che ci consiglia di scendere dal piedistallo del mito di noi stessi per imparare ad amarci nella nostra umanità, nella nostra misura. Ed è chiaro che l’accertamento di quella misura di sé stessi comporta l’accettazione di limiti, compromessi e fragilità che ci appartengono e fanno parte della nostra identità; ne costituiscono la parte più intima e più vera, per cui più “nostra”, ragion per cui tendono a “rafforzarci” piuttosto che “indebolirci”.

La nostra società, che a differenza di quella greca – così a sto giro sfoggiamo esterofilia al passato in modo da essere più originali – è fondata su un individualismo sprezzante e sfacciato e su un modo di concepire la via sul modello del sogno americano, del tipo: “se lo vuoi fortemente basta che ti impegni e non molli mai così raggiungerai i tuoi sogni in modo da essere finalmente felici” (Rocky e Chiara Ferragni docent). Così, non soltanto tralascia la possibilità di un “potere di arrendersi”, ma lo esclude categoricamente pretendendo da noi uno sforzo insuperabile e disumano: non smettere di correre, non azzardati a fermarti mai altrimenti la colpa della tua infelicità sarà solo tua. E infatti siamo tutti infelici.

Ora però, immaginatevi per un momento su quel tapis roulant, a correre senza sosta, a giocare a fare i super-atleti con la vostra vita, come se la vostra felicità fosse una gara.. e se poteste arrendervi? Se poteste dire ora basta, scendo e vado fuori a fare una passeggiata e magari mi mangio un gelato? Se potessimo raccogliere davvero la bellezza della nostra “lentezza”? Il gusto del nostro passo?

Che poi, a pensarci bene, le rese non fanno finire le guerre o sbaglio?