“La lotta contro l’Alzheimer è la mia sfida personale”, l’intervista alla ricercatrice Claudia Marino

Claudia Marino è una giovane ricercatrice che dedica la sua carriera alla ricerca di meccanismi di protezione dall’Alzheimer. Laureata con lode in Farmacia, vincitrice di numerosi premi e riconoscimenti, nonché coautrice di pubblicazioni scientifiche, tra i suoi successi si annovera il prestigioso dottorato internazionale in Biomedicina e Neuroscienze ottenuto tra l’Università di Palermo e la University of Texas Medical Branch a Galveston. Claudia adesso è postdoctoral fellow presso il dipartimento di oftalmologia allo Schepens Eye Research Institute della celebre Università di Harvard Medical School. È stato affascinante percepire attraverso le sue parole la passione per il suo lavoro e ho la fortuna di poter condividere con voi la sua storia. 

La tua carriera vanta già molte esperienze: quali sono le più significative?
Sicuramente il mio dottorato in Texas ed il mio attuale lavoro ad Harvard, dove sono un post-doc. Ho iniziato a giugno 2019 e continuo ad occuparmi di Alzheimer, un tipo di ricerca che considero anche la mia sfida personale, dato che non esiste ancora una cura. Qui sono più indipendente e ho anche la responsabilità di seguire studenti in training. Con il laboratorio guidato dal prof. Arboleda-Velasquez ho contribuito al lavoro pubblicato di recente su “Nature Medicine” poi riproposto sul New York Times: abbiamo avuto la fortuna di collaborare con un ospedale colombiano in cui seguono alcune famiglie con una mutazione genetica che le porta ad avere una forma aggressiva di Alzheimer manifesto già a 45 anni.
La scoperta di portata mondiale riguarda un paziente che, tra le famiglie che hanno preso parte alla ricerca, presenta una mutazione per cui, dopo tre decadi dall’età di incidenza prevista, non aveva ancora la malattia – una malattia che se hai il gene per l’Alzheimer è dominante. Si tratta quindi di un paziente che è letteralmente sfuggito alla sua sorte genetica. La mutazione che abbiamo scoperto riguarda una proteina coinvolta in tutta la cascata, che si chiama apolipoproteina e gli forniva una protezione.
È una scoperta importante perché può dare la possibilità di trovare una cura, infatti se riuscissimo a mimare questa mutazione che protegge dall’Alzheimer in una così aggressiva forma, sicuramente ci sarebbe un’ottima possibilità di curarlo. Se è successo a questo paziente potrebbe essere il target vincente per curare gli altri. Questo è l’obiettivo. 

So che hai svolto anche un’esperienza di volontariato un po’ particolare: ti va di parlarci di “Brian Fair”? 
Mi piace molto trasmettere la passione per la neuroscienza. Durante le fiere scientifiche, organizzate dalla Società delle Neuroscienze Americana, raccontavo degli aneddoti ai bambini per fare apprezzare il cervello umano, uno era questo: “Perché il nostro cervelletto è importante?”. Perciò consigliavo loro di immaginare di star giocando a basket: quando tiriamo la palla magari la prima volta manchiamo il canestro, però focalizzandoci sul canestro e provando una seconda volta è il cervelletto che aiuta a ottimizzare la postura e poi a fare canestro – perché tra le varie funzioni del movimento c’è anche l’aggiustamento delle funzioni superiori che aiuta a migliorare – quindi il movimento “fine” che porta al successo nel canestro viene dal cervelletto. 

Com’è la vita ad Harvard? 
Harvard è tosta, è molto competitiva. Ne senti il peso sul badge. Il lato positivo è la diversità culturale, il lavoro in team. So che è l’esperienza più bella per la mia carriera perché lavoro in un laboratorio con tante persone che hanno diversi background scientifici, ognuno ha esperienze diverse e ha la possibilità di accrescersi; inoltre ogni persona può esprimere un pensiero che può illuminarmi. Le più belle idee nascono dal confronto.
In America un enorme vantaggio è che sei nomade e per andare avanti è fondamentale fare il dottorato fuori dalla propria Università. In Italia ho avuto la percezione sia preferibile rimanere nello stesso laboratorio per lungo tempo, cosa che, a mio parere, limita la crescita accademica. Io condivido questo pensiero americano, secondo me è bellissimo e ti arricchisce; ho imparato le tecniche più diverse, quello che poi mi permette un domani di avere il mio laboratorio, la mia indipendenza scientifica, l’elasticità mentale di pensare fuori dal guscio.Questa è la bellezza dell’Accademia Americana

Che cosa consiglieresti ad un giovane che voglia intraprendere un percorso simile al tuo? 
Esci fuori dal guscio! Se la tua passione è forte, non avere paura di volare, senza sapere se avrai la rete sotto. Essere studenti attivi è una possibilità unica per fare una serie di attività che vi permettono di arricchirvi. Mettetevi in gioco, imparate a parlare al pubblico, studiate come trasmettere il pensiero scientifico. Confrontatevi, è costruttivo e anche le critiche migliorano il prodotto iniziale, portandovi al successo! Sono stata anche rappresentante degli studenti e ho sempre seguito i consigli del mio mentore, il prof.Taglialatela che mi ha guidata e spronata a partecipare ai meeting scientifici, un ottimo modo per divulgare le proprie ricerche non ancora pubblicate. Io in Italia avevo tutto, ho la fortuna di avere una famiglia che non mi ha mai fatto mancare nulla, avrei potuto avere la mia farmacia e fare una vita semplice – poi sono andata da sola in Texas, con la mia valigia, non avevo nessuno – quindi vi dico: “perché non rischiare?”. Ho avuto periodi neri all’inizio, perché la cultura americana è molto diversa dalla nostra, però se la tua passione è più forte della paura e delle difficoltà, vai, e se lo è prova lo stesso, si può sempre tornare indietro. Lo stress è alto, le paure sono tante – il lavoro di ricerca è uno dei lavori più instabili – a volte alle dieci di sera sono ancora in laboratorio, il mio lavoro è la mia vita. Ho questi momenti però poi arriva da me uno studente e mi chiede aiuto per la stesura di un saggio ed io mi illumino, appena arriva un risultato inatteso mi dico che amo questo lavoro.

Già pubblicato su Quotidiano del Sud – L’altravoce dei Ventenni 30/03/2020