Le parole nella politica: cosa sta succedendo?

Esiste in linguistica una distinzione – su cui si dibatte tuttora – tra lingue speciali e lingue settoriali. Se le prime sono varietà monosemiche caratterizzate da un lessico specialistico condivise da esperti del settore, le seconde sono più aperte all’apporto di settori diverse e caratterizzate da un lessico meno specializzato e meno rigidamente codificato.
Il linguaggio politico fa parte delle cosiddette lingue settoriali e attinge al linguaggio economico, giornalistico e giudiziario. Potenzialmente, ogni parola diventa della politica se utilizzata in contesto politico.

La lingua della politica italiana viene convenzionalmente divisa in tre fasi:
-la lingua utilizzata durante il regime fascista, identificata con quella di Mussolini;
-la lingua della Prima Repubblica, che va dal 1946 al 1994;
-la lingua della Seconda Repubblica, che va dal 1994 a oggi.
Si può tuttavia ipotizzare che la Seconda Repubblica sia terminata con le elezioni del 4 marzo 2018, che hanno sancito la fine del bipartitismo per come lo conoscevamo, e l’inizio della Terza Repubblica.
Dal punto di vista linguistico l’eloquio ha subito e continua a subire una trasformazione radicale. Mussolini-oratore indirizzava i discorsi alle folle, utilizzando metafore militari, religiose, medico-chirurgiche e aulicismi per innalzare il tono dei discorsi; durante la Prima Repubblica riscontriamo una crescente ambiguità e la nascita di un vero e proprio codice linguistico comprensibile solo da pochi, mentre la Seconda Repubblica porta con sé il capolavoro semantico di Silvio Berlusconi, un linguaggio più semplice e vari tentativi di imitazione.
La Terza Repubblica registra invece una virata verso una dialettica aggressiva, quasi teatrale, vuota nei contenuti e volgare.

Se è vero che la lettura del lessico contemporaneo consente un’interpretazione corretta del tempo che viviamo, “Tempi bui” dei Ministri può essere riascoltata in chiave assolutamente profetica.
Era il 2009 quando cantavano “non è per rovinarti il pranzo che ti dico arriva la marea e tu la scambi per entusiasmo”. Avremmo dovuto intuire i primi cambiamenti già dalla campagna elettorale che ci ha condotti alle elezioni del 2018: senza esclusione di colpi, basata sull’incitamento alla disintegrazione e all’odio, giocata tra agorà e piazze virtuali dove la sfida non si lancia più con un guanto ma con un sondaggio o una diretta Facebook.
Quella messa in piedi dal linguaggio politico italiano è una guerra di odio viscerale che attinge ai sentimenti più bui e alle disuguaglianze e alza una cortina di fumo che distrae dalla realtà e allontana gli uni dagli altri.
Per quell’eloquio misurato promosso dalla dialettica sociopolitica sembra non esserci più spazio nemmeno nelle aule, in cui il discorso parlamentare – considerato per anni strumento di stabilità politica – ha dovuto cedere il passo alle brutture di polemiche (talvolta anche personali) a brutto muso e conflitti che distraggono dalle reali esigenze del bel Paese.
Non si parla di politica, né di economia, né di migrazioni, figurarsi di cambiamento climatico, parità salariale, integrazione europea, diritti civili. Quel che rimane è l’involucro del linguaggio politico. Perduta l’ars oratoria, svuotati i contenuti, rimangono la frequenza e l’abbondanza di forestierismi, la retorica dell’evasione, l’uso di slogan e un linguaggio semplice, il più vicino possibile all’uomo medio, in cui vengono meno tecnicismi specifici, trionfa l’uso di un registro informale e tuttavia ricorre l’uso di pseudo-latinismi (Mattarellum su tutti) e anglicismi inutili a nascondere contenuti spinosi.

Per governare – e farlo bene – non basta.

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