UnconVENTIonal love: Quello che non ho imparato dall’Amore

Penso che non vi sia cosa più ardua per chiunque che, avvicinarsi all’argomento “amore” senza che qualche grande poeta o romanziere di storica fama non si rivolti nella tomba.
Eppure, a ben vedere, non v’è argomento più agognato, più scritto e cantato, e poi riscritto e decantato dell’amore; proprio il più difficile. Ma com’è possibile?
Forse perché, nel complesso mosaico che compone la sfera dei sentimenti umani, l’amore è quello che contraddistingue maggiormente la natura umana e che al tempo stesso ci allontana da essa. Ci costringe ad uno sforzo di sublimazione della realtà, che pian piano trasforma quello stesso sforzo in uno slancio, la ragione asettica in immaginazione, la stessa che ci rende capaci di vedere in cinque righe parallele un pentagramma, in una sequenza ordinata di vibrazioni la musica: la prova più inconfutabile dello scippo che la natura mortale ha fatto all’immortalità divina. Ed è per questo che artisti, intellettuali e perfino scienziati – mi viene da pensare alle parole di Einstein in proposito – insomma tutti ne siamo ossessionati. Tentare di comprendere l’amore significa lanciarsi in una sfida di senso che già il solo intraprenderla basta a dare significato alla nostra vita.

Così, ho deciso di cimentarmi anche io nell’insormontabile prova. E perché non discorrere dell’amore come se raccontassi ad un amico delle impressioni, delle sensazioni e di quelle piccole intuizioni che possono essere carpite da una tanto breve quanto intensa chiacchierata con un semi-sconosciuto? Come se mi si fosse presentato davanti e vi dovessi descrivere la sua personalità, come accade spesso dopo aver analizzato le parole, la gestualità, i modi di fare o perfino il modo di vestire di una persona a noi estranea, incontrata così per la prima volta, quasi per caso. D’altronde non ne ho vissuto abbastanza di vita per potervene parlare come di un amico, un compagno, un padre. Ho solo vizio della penna, e questo basta per cimentarmi come uno sciocco in una conversazione simile; ma ci proverò lo stesso.

Amore mi si è presentato povero, brutto in volto, nudo e affamato. È una di quelle presenze che attiva un profondo senso di assenza e di molta solitudine interiore. La sua povertà è tanto grande quanto la ricchezza che le sue parole sono in grado di ingenerare. Non è un caso che secondo il mito greco Eros nasca proprio dall’unione di Poros, dio dell’ingegno e dell’espediente, e Penia, povertà, e fu concepito proprio durante il bacchetto dato dagli dei per celebrare la nascita di Afrodite, la dea della bellezza. È povero perché si dilegua col possesso; è brutto in quanto si alimenta di bellezza; è affamato e nudo, scalzo, spoglio delle vesti, perché richiede soltanto la cura.

Amore è cieco, non perché incapace di vedere, bensì perché comprende l’importanza di ascoltare gli altri sensi, solo così ha potuto imparare a fidarsi del proprio passo percorrendo sicuro strade ritte e impervie senza mai perdere l’orientamento. “Sentire è tutto” continuava a ripetermi.

Parlava e si comportava come un folle. Ciò perché ha abdicato a quell’irrinunciabile postulato della razionalità in accordo al quale ciascuno di non è sufficiente e indispensabile soltanto a sé medesimo. La nostra vita, la nostra sopravvivenza, viene prima di qualunque altra cosa. Saremmo portati a dire che in ciò sta la natura delle cose. Ma l’amore sovverte la logica della natura delle cose, ecco perché gli innamorati si dicono smancerie come “ti amo da impazzire”, “ti amo da morire” o “ti amerò per sempre”. Amore parla nel tentativo di superare il limite della mortalità e del tempo nella speranza di sugellare la promessa di un investimento totale e totalizzante senza avere alcuna certezza circa il fatto che essa verrà mantenuta. È come se scegliesse di piantare il seme dal quale dipenderà la fruttuosità di tutto il vostro orto nella terra di un altro, con la promessa che questi si impegnerà ogni giorno ad accudirla porgendovi la mano. Un appuntamento quotidiano, che diventa intimo, e man mano disvela, dietro l’apparente monotonia dell’incontro ripetitivo, una vocazione irrinunciabile che assume le vesti di una necessità vitale. Il frutto di una felicità autentica sebbene richieda fatica.

Mi ha confessato poi di essere il più grande custode della sapiente arte della rinuncia e dell’abnegazione. Ha la capacità di mettere da parte sé stesso, completamente, ciò è possibile perché ha imparato l’arduo mestiere dell’accettazione, di sé e degli altri. Se infatti è “il miracolo per cui ciò che è due diviene uno”, come sosteneva Hegel, ciò dipende dalla sua capacità di rinunciare. Ma a cosa? Racconta: al possesso, alla parola, al silenzio, allo spazio proprio e a quello altrui. In effetti l’arte della rinuncia, spiega, è quella dell’equilibrista che rifiuta uno spazio d’appoggio sicuro per riuscire in una mirabile impresa.

Pensandoci bene, quello con Amore è un legame rivelatorio: negli occhi dell’altro non sveliamo la sua anima, ma riveliamo noi stessi. E se cerchi di comprenderlo rimane inspiegato; e se riesci a spiegartelo allora non hai mai amato.

Tutto questo, e forse poco altro, è quello che ho appreso da questa conversazione con Amore. Tutto il resto invece, è ciò che non ho imparato dall’Amore.