Il tentativo di Bellocchio di riportare in auge il cinema italiano: Don Masino e la sua corsa agli Oscar

Circola da qualche giorno la notizia della candidatura della pellicola di Marco Bellocchio agli Oscar.
L’opera del regista emiliano rappresenterà l’Italia alla corsa per il miglior film straniero: “Non mi faccio illusioni, ma farò tutto il possibile per aiutare Il traditore in questo lungo cammino. Pur da vecchio anarchico pacifista e non violento, sento come un onore e una responsabilità rappresentare l’Italia in questa sfida“, ha riferito il regista.

Il traditore, che al suo ingresso nelle sale dei cinema ha suscitato le critiche di molti per la scelta della data di uscita – il 23 maggio, anniversario dell’assassinio del giudice Falcone, proprio in onore di chi si è immolato per la patria – è un capolavoro del cinema italiano. 
Badate bene, chi scrive non ha particolari competenze cinematografiche, anzi ha anche parecchie lacune per ciò che concerne la storia del cinema; tutto ciò che segue, in pillole, sono le impressioni e le emozioni che 135 minuti sul grande schermo hanno suscitato in una normale amante del cinema della domenica sera.

Il traditore racconta la storia di Tommaso Buscetta, primo collaboratore di giustizia della storia contemporanea. 
Buscetta, affiliato di Cosa Nostra, uomo d’onore e d’altri tempi, viene definito dagli storiografi il primo pentito della storia, anche se lui stesso non si è mai riconosciuto come tale.

Siamo negli anni ‘80, in Italia, e piu’ nello specifico in Sicilia, a Corleone, sede d’affari e d’affetti del più potente e pericoloso boss di tutti i tempi, Totó Riina, re di Cosa Nostra.
Tommaso Buscetta, detto Don Masino, spalla destra di Riina, non appena avverte la puzza di morto espatria e si rifugia in Brasile.
Mentre Tommaso si dà alla fuga, fra le mura siciliane la Mafia impervia e la faida tra le famiglie d’onore produce un numero indescrivibile di cadaveri.  Nel 1984, il Brasile “concede” finalmente l’estradizione e Buscetta, sotto le torture della polizia brasiliana, rientra finalmente in Italia, dove però troverà un giovane Giovanni Falcone ad aspettarlo. 

Giovanni Falcone e Paolo Borsellino rappresentano i valori di uno Stato con la S maiuscola: le Istituzioni, la Giustizia, la Verità, la Patria. 
Il loro sangue è stato stato versato per il nostro paese e ancora scorre invisibile sotto di noi. 
La lotta ideologica (e non solo) che hanno iniziato contro la criminalità organizzata è stata la più forte e la più fragile di sempre: loro, soli e da soli, hanno creduto di poter cambiare le cose.
Sono morti per noi, sono morti per lo stato e per mano dello stesso.
Siamo un paese che si è sempre piegato alla mafia e a tutte le sue diverse declinazioni locali, perché “la mafia da’ da mangiare e da’ lavoro” o perché “la mafia è nello stato”, come emerge anche dalle scene rappresentate nella pellicola di Bellocchio, in cui il popolo sembra quasi devoto ai suoi boss.
Al contrario, io penso che ancora oggi sia lo stato a permettere alla mafia di mangiare, creando un vortice di sostegno reciproco e ontologicamente indistruttibile: la mafia esiste perché è nello stato, così come lo stato è perché la mafia glielo consente. 

Ma torniamo nel 1984.

Dicevo, Buscetta rientra in Italia, nello specifico il 15 luglio del 1984, e ad aspettarlo trova Giovanni Falcone, agli albori del maxi processo, il più grande processo penale della storia della nostra repubblica. 

Ad accompagnarlo è il vice questore Gianni De Gennaro, a cui dice: “Avrei due cose da dire a lei e al dottor Falcone”.

E allora il buon Falcone, dopo numerosi incontri e scontri silenziosi con il boss dei due mondi durati tre apparentemente lunghissimi giorni, riesce nel suo intento e trasforma Buscetta da spietato capofamiglia a collaboratore di giustizia. 

In letteratura, la figura d collaboratore di giustizia, ai sensi del D.L. 15 gennaio 1991 n. 8, convertito, con modificazioni, dalla legge 15 marzo 1991 n. 82, indica “un soggetto che trovandosi in particolari situazioni di conoscenza di un fenomeno criminale, decide di collaborare con la magistratura.”

Si è soliti associare il collaboratore di giustizia al fenomeno del pentitismo: chi faceva parte di un determinato gruppo crimanale, ad un certo punto si pente e decide di raccontare tutto in cambio di protezione. 

Ebbene, Don Masino giammai si ritenne un pentito, come spesso ha dichiarato nelle sue deposizioni in aula. 

Anzi, Don Masino incalza: “Sono un mafioso“, e parla per 45 giorni di fila, ricostruendo la storia, le cronache, i fatti e i protagonisti della mafia siciliana.

Le ragioni che spinsero il boss dei due mondi a rivelare organigrammi e piani della mafia al giudice Falcone non furono dettate dalla paura o dalla convenienza, ma furono di natura prettamente ideologica: Buscetta credeva in quella scala di valori, quelle regole non scritte, sottese al contratto mafioso.
Buscetta si riteneva l’ultimo uomo d’onore, per lui vi erano dei principi che non dovevano essere trafugati, perché per un boss, per Cosa Nostra, il rispetto veniva prima di tutto.
E invece la mafia siciliana negli ultimi anni stava cambiando, si pensava solo al potere, ad uccidere, non esistevano più piramidi, ruoli, rispetto: c’era solo fame di sopraffazione, l’uno sull’altro.
Buscetta decise di collaborare perché si sentiva estraneo a questo nuovo fenomeno mafioso, il suo fu un solo gesto di ribellione in onore dei vecchi tempi.

Onore che traspare dal confronto in aula tra Buscetta e il suo amico di infanzia Peppino Caló, rispettivamente interpretati nella pellicola di Bellocchio da Favino e Ferracane.

Il cinema trepidava, gli occhi di ciascuno di noi erano puntati sull’espressionismo del viso di Buscetta. 

Indescrivibile. 

Un Favino che riporta in auge il cinema italiano dopo decenni di cinepanettoni, un attore magistrale, unico, toccante. 

Per estrema curiosità, appena rientrata a casa, ho cercato su YouTube la registrazione di quell’episodio del maxi processo: una scena identica a quella poco prima vista nel cinema. 
Favino ricrea lo stile, il portamento, la voce – dannazione la stessa voce! – del vero Buscetta. 

Buscetta non è un eroe, Buscetta rappresenta – mi si lasci passare senza che questo voglia essere un elogio all’operato del mafioso – l’ultimo simbolo di rispetto e onore: rispetto verso la tradizione mafiosa ma anche nei confronti del suo interlocutore, che da nemico acerrimo diventa amico e confidente. 

Il traditore riporta in vita una pagina buia ma al contempo speranzosa del nostro passato, in cui la fiducia in un futuro migliore poteva apparire congrua alle nostre aspettative. 
Il traditore è la rappresentazione di una storia vera, in maniera autentica e reale che quasi più che un film sembra un documentario.
Il traditore ci ricorda il male che è stato fatto, il sangue versato, racconta la piaga che ha messo in ginocchio un intero paese.
Il traditore è un grido di speranza, è il ricordo di una tradizione di cui non si possono condividere i valori ma che di valori si è seriamente nutrita.
Il traditore non tradisce affatto le nostre aspettative.

Favino muove le corde di violino sotto le indicazioni del suo abile direttore d’orchestra e insieme realizzano una melodia e uno spettacolo incredibile: chapeau al nostro cinema, ai nostri talenti, alla nostra storia e ai nostri eroi. 

E in bocca al lupo: che questo possa essere, finalmente, il ritorno e la riaffermazione della supremazia del cinema italiano sul panorama mondiale.